I GIGANTI DEL SANTUARIO
Di Maddalena Jahoda
Qualcuna ha compiuto un viaggio di migliaia di chilometri per giungere fino a lì; qualcuna si è tenuta nei pressi per essere pronta al momento del grande banchetto annuale a base di deliziosi gamberetti. Ogni estate le balenottere, mammiferi marini tra i più grandi al mondo, tornano nel mar Ligure e di Corsica, per far provvista di cibo. Non sono le sole: anche i capodogli compiono lunghi viaggi attraverso tutto il Mediterraneo, a sud per trovare le femmine, poi di nuovo a nord per riunirsi tra maschi: giovani, in giro per la prima volta da soli, anziani che conoscono il posto da decenni e sanno bene dove trovare i calamari.
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Altri invece le osservano, curiosi, danno loro dei nomi ed esultano quando, dopo un anno – o anche dopo molti anni – si accorgono che qualcuna è la stessa che avevano già fotografato, o che ne hanno registrato la voce, o che un’altra ha avuto un piccolo. Dicono che vogliono conoscerle per proteggerle… È un mare bellissimo, e su questo concordano balene e umani. Certo è pieno di insidie e il futuro è incerto… Ma gli umani – quelli che vogliono che anche i loro figli e nipoti possano conoscere il mare e i suoi abitanti – lo hanno chiamato: “Il Santuario dei Cetacei“.
Il triangolo delle balene
Il Mediterraneo è un mare piuttosto piccolo se paragonato agli oceani, e può sembrare ancor più sorprendente che contenga al suo interno un’area protetta più vasta dell’intero territorio dell’Austria. Compreso tra la Liguria e la Provenza, il Santuario Pelagos si estende a sud fino al lato settentrionale della Sardegna, est fino oltre l’Argentario, e a ovest fino alla penisola di Giens in Francia; ha un’estensione di 87.500 km quadrati ed è stato istituito per proteggere in primo luogo la sua fauna più delicata e rappresentativa, quella dei cetacei (balene e delfini), ma necessariamente anche tutto il resto dell’ecosistema, dal fitoplancton ai pesci.
Questa zona di mare infatti è molto particolare, come vedremo, e costituisce probabilmente la più clamorosa eccezione al Mediterraneo considerato generalmente un mare “povero”. Vediamo dunque cosa rende questa area così speciale.
Perché proprio qui? Oceanografia del Santuario
Il Santuario non è né un parco marino costiero, né solo un tratto di mare aperto, bensì contiene molti e diversi habitat, che si susseguono dalla riva fino ai fondali di oltre 2500 metri. E non è tutto: il Santuario ha anche un’altra peculiarità più unica che rara: non è né esclusivamente italiano, né francese, ma è frutto dell’accordo di tre diverse nazioni, Italia Francia e Principato di Monaco. In realtà è solo da pochi decenni che i ricercatori si sono resi conto che il bacino Corso-Ligure-Provenzale, ovvero la parte nord-occidentale del Mediterraneo, costituisce un patrimonio naturalistico di enorme valore, tanto da meritare una protezione speciale.
Negli Anni Ottanta infatti una serie di survey nel Mediterraneo compiuti dall’Istituto Tethys Onlus, organizzazione dedicata allo studio per la tutela dei cetacei, avevano portato alla conclusione che nel Mar Ligure occidentale la frequenza di avvistamento di balene e delfini era di quattro volte superiore a quella del contiguo Tirreno. Anche se è per loro che è stato creato il Santuario, in realtà l’insolita abbondanza e varietà di specie del Mar Ligure e di Corsica non riguarda solamente i cetacei, bensì tutta la cosiddetta “catena alimentare”, tra cui pesci, cefalopodi, crostacei planctonici, insomma una grande varietà di organismi che popolano questo ambiente – un ambiente tutt’altro che monotono e uniforme.
Infatti, se immaginassimo di vederlo in toto da sott’acqua anziché dalla superficie, si rivelerebbe straordinariamente vario, con montagne sottomarine e canyon, correnti calde e fredde, stratificazioni orizzontali. Le coste sono prevalentemente rocciose, ad eccezione della Corsica orientale e della Toscana, dove invece sono sabbiose e degradano dolcemente. All’interno del Santuario la piattaforma continentale, cioè la zona di fondale relativamente basso a ridosso della costa, è piuttosto ampia solo in corrispondenza di queste due aree, mentre altrove è di dimensioni ridotte e disseminata di profondi e ripidi crepacci sommersi, un fattore molto importante, come vedremo, per la ceto-fauna.
Invece l’area cosiddetta pelagica, cioè d’alto mare, nella porzione occidentale del Santuario, è caratterizzata da una piana abissale profonda 2500-2700 m; solo sul lato orientale della Corsica il fondale è irregolare e meno profondo (1600-1700 m). I motivi che fanno di questo mare un’area tanto “diversa” di Mediterraneo dipendono dalle particolarità oceanografiche del bacino: tra queste proprio il brusco passaggio dai fondali bassi alle alte profondità. E’ noto infatti che dove il fondo “precipita” improvvisamente si formano più facilmente delle correnti di risalita (note con il termine tecnico di upwelling) che portano in superficie i sali minerali.
Questi ultimi servono a “fertilizzare” tutta la catena alimentare – e sono soprattutto loro che determinano quanti organismi possono vivere in un tratto di mare. Infatti, i sali minerali sono indispensabili al primo “anello” della catena alimentare, i vegetali (che in mare sono rappresentati dal fitoplancton); il secondo anello, il plancton animale, si nutre di questi vegetali e così via fino ai grossi predatori (che, indirettamente, dipendono quindi anch’essi dai livelli inferiori).
Il fatto che il Mediterraneo sia considerato “povero” è legato proprio all’inizio di questa catena, perché spesso i sali minerali non sono disponibili, non perché non ci siano, ma perché tendono a restare bloccati sul fondo. Il “nostro” è un mare chiuso, collegato all’oceano praticamente solo attraverso lo Stretto di Gibilterra, dal momento che il canale di Suez, l’altro sbocco, influisce poco sullo scambio di acqua. Dall’Atlantico entra una corrente di acqua leggera e poco salata, che tende a espandersi alla superficie; dopo qualche tempo, per effetto dell’azione del sole, parte dell’acqua evapora, e quella che resta diventa più pesante e sprofonda poiché è aumentata la sua concentrazione salina. Negli abissi questa acqua più densa si accumula, fino a tracimare, a un certo punto, sempre dallo Stretto di Gibilterra, con il risultato che buona parte dei sali vengono “persi” senza essere stati utilizzati dagli organismi.
Nel mar Ligure invece riescono a risalire più nutrienti che altrove per una serie di meccanismi, tra cui l’azione del vento. Forti correnti d’aria dirette dalla costa verso il largo (come il “Mistral” ben noto a chi va in barca a vela) spostano l’acqua di superficie, lasciando così posto a quella proveniente dagli abissi.
Infine, un ulteriore apporto di minerali al bacino Corso-Ligure proviene dal fiume Rodano. Una parte importante giocano poi anche le correnti marine tra cui soprattutto quella dominante ciclonica, che scorre verso nord lungo la Corsica e la Toscana per poi fluire verso ovest lungo le coste della Liguria e della Francia. In questo modo si crea un sistema frontale permanente che agisce da linea di separazione fra acque costiere e pelagiche, ma quel che più conta, lungo questa linea di separazione i movimenti delle masse d’acque associate al fronte generano un’intensa attività biologica. In altre parole, c’è cibo per tutti, dagli organismi microscopici del plancton algale fino alle gigantesche balene.
Una proposta inaudita
L’idea del “parco in mezzo al mare” era stata presentata per la prima volta nell’estate del 1991 da Giuseppe Notarbartolo di Sciara, presidente dell’Istituto Tethys Onlus, presso l’Associazione “Fondazione Europea Rotary per l’Ambiente”, con il patrocinio del Consiglio d’Europa. Il cosiddetto “Progetto Pelagos”, che vedeva coinvolti anche Europe Conservation e diversi ricercatori italiani e non, aveva una connotazione quasi utopistica, tanto è vero che suscitò entusiastici consensi ma anche qualche perplessità: una operazione del genere, cioè la creazione di un parco non nazionale ma addirittura sovra-nazionale, presentava grandi difficoltà legali e giuridiche.
Non per nulla, la strada, da allora, era stata lunga e irta di ostacoli; ma sulla spinta anche di molte organizzazioni non governative, tra cui Tethys, Greenpeace e la francese RIMMO, nel 1993 avviene il primo passo ufficiale: Francia, Italia e Monaco firmano a Bruxelles una dichiarazione di intenti per la creazione di un Santuario internazionale per la tutela dei mammiferi marini mediterranei, ispirata al “Progetto Pelagos”.
Sarà però solo il 1999 che vedrà la firma dell’Accordo tra Francia, Italia e Monaco da parte dei rappresentanti dei rispettivi governi a Roma. Dopo la ratifica di Monaco e della Francia, arriva, infine, anche quella dell’Italia, nel 2002: il 21 febbraio il Santuario vede ufficialmente la luce. Il 7 dicembre 2005 una conferenza straordinaria delle parti dell’accordo sul Santuario stabilisce la sede del Segretariato esecutivo a Genova, presso il Palazzo Ducale. In quest’occasione l’Italia propone di includere il Santuario nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO.
Oggi il Santuario è iscritto nella lista delle ASPIM della Convenzione di Barcellona (Aree Specialmente Protette di Importanza Mediterranea – in inglese note come SPAMI), e pertanto le norme dell’Accordo si applicano a gran parte dei Paesi mediterranei. Ma cosa significa questo nella pratica? Un testo di 22 articoli stabilisce che le Parti si impegnano ad adottare le misure appropriate per assicurare uno stato favorevole alla conservazione dei mammiferi marini, tutelando gli animali e il loro habitat da impatti negativi diretti o indiretti delle attività umane. Pertanto è proibito, si legge sempre nel documento ufficiale, la cattura deliberata dei mammiferi marini e il disturbo intenzionale, sono bandite le reti pelagiche derivanti, in linea con le direttive della Comunità Europea. Inoltre le attività di whale watching a scopi turistici devono essere regolamentate, così come le gare di off-shore, che potranno anche essere proibite.
Ma c’è un’altra funzione importante che il Santuario ha svolto dalla sua creazione fino ad oggi: la sensibilizzazione del pubblico. Solo pochi decenni fa gli italiani faticavano a credere che nelle loro acque vivessero balene e delfini; quando se ne spiaggiava qualcuna lo si riteneva un animale finito per qualche motivo “fuori rotta”; e tutto ciò nonostante che ai tempi del Romani la riviera di Ponente fosse chiamata Costa Balenae – una informazione che si era evidentemente persa con il tempo. Di recente invece, grazie all’azione di divulgazione scientifica dei ricercatori, di varie organizzazioni per l’ambiente, delle scuole e, non ultima, della possibilità di vedere in natura gli animali con una semplice uscita in barca, molto sta cambiando nella consapevolezza del pubblico.
Ma se le intenzioni di chi ha istituito il Santuario sono buone, da più parti sono state additate come poco efficaci dal momento che mancano leggi specifiche, suscitando polemiche e, in qualche caso, aperte accuse. Che cosa, dunque, minaccia il Santuario?
Una difficile convivenza
Per ironia della sorte, la zona probabilmente più importante per i cetacei del Mediterraneo, è anche una delle più intensamente sfruttate dall’uomo. Gran parte delle aree costiere che vi si affacciano, soprattutto quelle continentali, sono infatti densamente popolate e disseminate di cittadine, con porti di importanza commerciale e con numerose aree industriali. Senza contare che sulle acque del Santuario si affacciano importanti mete turistiche, che portano ad un ulteriore aumento della pressione antropica nei mesi estivi. Purtroppo tutte queste attività della nostra specie rappresentano potenziali rischi per i cetacei del Santuario.
Vediamo innanzitutto quali sono, in generale, le minacce non indifferenti a cui vanno incontro i cetacei nel Mediterraneo e, in generale, nei mari del mondo. Il degrado dell’habitat è indubbiamente tra i più insidiosi ed è un “mostro” dalle molte facce: c’è l’immissione in mare di sostanze inquinanti in prossimità di grossi agglomerati urbani e dove i fiumi sfociano in mare, sia sotto forma di rifiuti “visibili” che di più subdole sostanze chimiche. Tra queste i famigerati DDT (una categoria di vecchi insetticidi, oggi messi al bando, ma nondimeno ancora presenti nell’ambiente, con una nefasta tendenza ad accumularsi nei grassi degli animali, dalle balene all’uomo), i PCB, usati nell’industria per molto tempo, con un’azione simile, i “ritardanti di fiamma” impiegati in pressoché ogni prodotto industriale, che si infiltrano praticamente in tutti gli organismi, e sono oltretutto ancora più tossici.
A questo si aggiunge poi un diverso tipo di inquinamento, quello acustico. Per i mammiferi marini l’udito è il senso principale, con cui comunicano e si orientano. Purtroppo il traffico marittimo, crescente di anno in anno, di traghetti, cargo, navi militari, petroliere, imbarcazioni da pesca e da diporto, particolarmente elevato nei mesi estivi, causa un rumore di sottofondo che è difficile credere non interferisca con la vita dei cetacei – anche in considerazione del fatto che sott’acqua i suoni viaggiano molto più velocemente che in aria. In alcuni casi si è avuta una dimostrazione drammatica dell’effetto che certi suoni possono avere: alcune specie, come gli zifii possono essere uccisi in massa dai potenti sonar militari, come è accaduto, per esempio, in Grecia pochi anni fa.
Inoltre determinate attività di ricerca in mare possono costituire un disturbo invalidante per i mammiferi marini, dalle operazioni di esplorazione del fondale, alla ricerca di gas e derivati petroliferi, alle costruzioni offshore in generale. Un altro rischio che incombe sull’incolumità dei cetacei del Santuario è rappresentato dalle collisioni con le imbarcazioni, rischio in crescita soprattutto negli ultimi anni con l’aumento dei traghetti veloci.
Anche la pesca causa problemi: quella industriale, praticata in maniera sempre più intensiva, sta decimando in maniera drammatica tutti i più grandi stock ittici del mondo, e il Mediterraneo non fa eccezione, tanto è vero che ci sono zone in cui i delfini non trovano più cibo. Non sembra, al momento, il caso del Santuario, ma è un pericolo sempre in agguato, tanto più insidioso se si pensa che spesso i ricercatori sono in grado di accorgersene solo quando è troppo tardi. E altrettanto insidiose sono le stesse attrezzature da pesca, soprattutto le reti; le famigerate “derivanti pelagiche”, lunghe chilometri e chilometri, hanno mietuto tantissime vittime tra i mammiferi marini negli scorsi decenni; oggi sono fortunatamente bandite dalla Comunità Europea, ma resta comunque il problema delle reti fantasma, abbandonate in mare, e della pesca illegale, sempre in agguato nel Mediterraneo
Un ulteriore rischio, infine, riguarda in un certo senso il Santuario ancora più che altre zone, perlomeno geograficamente: con il riscaldamento globale gli animali marini tendono a cercare temperature più fresche spostandosi verso i poli; ma se questo funziona negli oceani, non così nel Mediterraneo, chiuso verso nord, proprio dalle coste del Santuario. Questo purtroppo lascia prevedere che le specie nostrane saranno tra le prime a soffrire del cambiamento climatico globale.
I magnifici otto: balene e delfini del Santuario
La lista delle specie che vivono Santuario Pelagos è lunga e va dal plancton vegetale ai cefalopodi, dai grandi pesci pelagici ai minuscoli gamberetti che costituiscono il cosiddetto “krill mediterraneo”. Tra l’altro, la stagionale “esplosione” di popolazione di questi ultimi è un importante e caratteristico fenomeno naturale a cui si deve la presenza nella zona delle balenottere comuni, che di questi crostacei si nutrono quasi esclusivamente. Quanto ai cetacei, il bacino Corso-ligure-provenzale ospita tutte le specie regolari del Mediterraneo, otto in tutto: le balenottere comuni, i capodogli, gli zifii, i globicefali, i grampi, i tursiopi, le stenelle striate e i rari delfini comuni.
Fra tutte, le stenelle striate, le balenottere comuni, e i capodogli sono le specie più spesso avvistate. Sono però presenze regolari anche altri odontoceti teutofagi (i cosiddetti “deep-divers”) come i globicefali e i grampi, che frequentano sia le acque pelagiche che quelle di scarpata, e gli zifii che prediligono particolari aree in prossimità di profondi canyon sottomarini. Il delfino comune, un tempo abbondante in Mediterraneo, oggi è diventato estremamente raro a dispetto del nome; nel Santuario lo si incontra saltuariamente lontano dalla costa, sopra fondali alti, il più delle volte associato a gruppi di stenelle striate. I tursiopi invece vengono avvistati soprattutto in acque costiere, lungo la piattaforma continentale che circonda la Corsica, la Sardegna settentrionale, l’Arcipelago Toscano e la Francia.
Istituto Tethys Onlus
L’Istituto Tethys Onlus (www.tethys.org), che nel 2016 festeggia 30 anni di attività, è una organizzazione senza fini di lucro dedicata alla conservazione dei grandi vertebrati marini e dell’ambiente del Mediterraneo.
La sua professionalità nella ricerca scientifica a livello internazionale, con oltre 500 pubblicazioni accreditate, ne fa una delle istituzioni più qualificate nel settore. Ha introdotto e promosso l’idea del Santuario Pelagos, in seguito istituito mediante un trattato tra Italia, Francia e Principato di Monaco. Interamente basato su raccolta di fondi autonoma, l’Istituto ha coinvolto migliaia di persone nei suoi programmi di citizen science, basati sulla partecipazione del pubblico alla raccolta dati in mare.
Con Tethys ad avvistare balene
È possibile partecipare alle uscite nel mar Ligure di Tethys, ogni estate, da maggio a settembre, in turni di 6 giorni, sullo splendido motorsailer da 21 metri “Pelagos”; lo speciale programma di citizen science prevede che ai biologi esperti nella ricerca si affianchino persone entusiaste che abbiano voglia di vivere la splendida avventura dell’incontro con le maestose balenottere o le vivaci stenelle. Non occorre alcuna preparazione specifica, poiché a bordo vengono tenute lezioni su balene e delfini, sull’ambiente e sulle tecniche di raccolta dati. I volontari paganti hanno consentito finora a Tethys di effettuare il più lungo monitoraggio sui cetacei del Santuario.