Borgo antico, Pietrabruna (nei documenti medievali noto come “Petra Bruna”) deriva forse il proprio nome dal colore dell’arenaria che abbonda nella Valle del San Lorenzo e che ha fornito per secoli il principale materiale da costruzione con cui è stato realizzato non soltanto questo “villaggio di pietra”. Un litotipo che si presenta in natura con un colore giallo-ocra dalle tonalità variabili ed è ricco di ossidi ferrosi che, se sottoposti a forte combustione, virano decisamente sul rosso intenso, conferendogli un colore caratteristico bruno-dorato. In realtà, come spesso accade anche per altri borghi montani della valle, dietro il nome latino si celano origini più antiche che, forse, rimontano all’Alto Medioevo o, ancor prima, all’epoca della romanizzazione della Liguria di Ponente (fine del I sec. a.C.), quando sulle alture che circondano il Monte Faudo (m. 1149), come il Monte Follia (m. 1031), vivevano le popolazioni dei Liguri Ingauni. Se così fosse, il termine “bruna” potrebbe anche rivelare un retaggio germanico (“brunno”) e longobardo (641-643), e alludere a un idronimo, ossia alla “petra” da cui sgorgava una sorgente o una fonte, e alla grande abbondanza d’acqua della zona, di cui resta un ricordo nel toponimo locale del Monte Sette Fontane. Un’altra traccia, insomma, che si aggiunge alla realtà concreta dei reperti archeologici recuperati sul “castelliere” del Monte Follia e recentemente allestiti all’interno del Museo Archeologico ed Etnografico “Giuseppina Guasco”.
Le nebbie della storia che avvolgono tanti borghi minori dell’entroterra ligure, anche in questo caso, si diradano soltanto tra X e XI secolo, quando la “crociata” intrapresa dai marchesi e dai conti piemontesi e provenzali per la liberazione del Fraxinetum pose fine al terrore seminato dai saraceni lungo i principali valichi alpini e nelle valli limitrofe. L’alba del nuovo millennio, in tal senso, segna un periodo di vera rinascita e di ripresa generalizzata delle condizioni di vita anche nella Valle del San Lorenzo, avviando le prime tappe della formazione degli abitati montani. In questo senso, la prima notizia certa sull’esistenza del borgo data solo al 1103 e si lega strettamente al suo edificio religioso di riferimento, la chiesa di San Gregorio Magno, che all’epoca era affidata alla gestione dei Benedettini dell’isola di Saint-Honorat de Lérins ed era in via di costruzione. Fu nelle immediate vicinanze di questa chiesa romanica che sorse il primo insediamento di Pietra Bruna.
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Il Duecento, in effetti, si apre con la cessione (1228) degli ultimi diritti feudali che i Clavesana potevano ancora vantare su quella che fu la “corte” di Porto Maurizio e sui territori limitrofi che, all’epoca, erano ormai parte integrante dei diversi terzieri. Naturalmente il passaggio forzoso sotto l’egida genovese non fu pacifico. Anzi, i lacci stesi dalla Dominante per limitare gravemente l’autocefalia politica e le libertà commerciali del comune portorino, e dunque dei borghi confederati come Pietrabruna e Civezza, suscitarono subito delle ondate cicliche di ribellioni nelle periferie rurali (celebre il moto della “Jura” divampato nelle vallate di Oneglia, del Maro, dell’Arroscia e del Dianese), cui presero parte anche le ville poste a monte di Porto Maurizio (specie quelle del Terziere di San Tommaso). Represse puntualmente nel sangue dalle milizie genovesi e punite in modo anche più esemplare con distruzioni mirate e sanzioni penali e pecuniarie, le rivolte contadine duecentesche sortirono il solo risultato di segnalare l’ascesa delle periferie e il loro crescente desiderio di rappresentanza, se non proprio di autonomia.
Sebbene non esistano notizie dirette sulla Pietrabruna basso medioevale, i secoli XIII, XIV e XV rappresentano un momento fondamentale per la sua storia. È in questo periodo che il borgo conduce a termine il processo di conquista delle quote attuali (m. 390 circa), iniziando a svilupparsi secondo le curve di livello che fasciano il pendio cui è ancora tenacemente aggrappato. Al termine di questo lento ma progressivo processo, nel XVI secolo, Pietrabruna assumerà la fisionomia di un centro arroccato e cinto da una cortina compatta di case a schiera che, all’occorrenza, potevano assolvere alla funzione di mura difensive. L’assetto e la direzione di sviluppo impressa alla maglia urbana tardomedievale, nella fattispecie, ricordano ancora l’importanza assunta per l’economia locale dai diritti di sfruttamento dei pascoli comuni (le “bandite” medioevali) posti alle spalle del borgo, in particolare quelli sistemati presso il passo di San Salvatore (m. 713) e del Monte Follia (m. 1031). Un tempo (fra X e XII secolo) destinate a riserva di caccia privata dei grandi marchesi arduinici e clavesanici, le bandite del Follia divennero ben presto la più grande e ambita risorsa economica delle comunaglie rurali e, come tale, fonte inesauribile di liti, discordie e conflitti con le popolazioni che, soggette ad altre entità politiche (come Badalucco e Montalto, ma anche Castellaro e Terzorio), vi convergevano seguendo altri versanti. Gli introiti derivanti dalla vendita del legname e dallo sfruttamento agro-silvo-pastorale della zona furono alla base dell’espansione del borgo e, specie fra Trecento e Quattrocento, della sua ascesa politica all’interno degli ordinamenti statutari della Communitas (riformati nel 1397). A quell’epoca, infatti, i rappresentanti (ovvero gli “Anziani”) di Pietrabruna avevano accesso alle principali magistrature del Terziere di San Tommaso e non solo.
Il Cinquecento scandisce per Pietrabruna il periodo di massima fioritura artistica, nel quale giunge a compimento l’espansione urbana intrapresa secoli addietro e in cui si rinnovano, o si riedificano, i principali edifici religiosi della comunità. Fra 1534 e 1539, infatti, l’oratorio quattrocentesco di San Matteo Evangelista, costruito al centro del borgo, venne elevato al rango di parrocchiale e ampliato a tre navate a svantaggio della chiesa romanica di San Gregorio Magno, posta ai piedi dell’abitato in posizione scomoda per la popolazione, che perse gradualmente d’importanza, conservando intatte le funzioni di edificio cimiteriale. A questo periodo risale inoltre la costruzione dell’oratorio della Santissima Annunziata, sede della confraternita dei Disciplinanti, di cui resta la tavola dipinta da Agostino da Casanova nel 1545 per l’altare maggiore e un pregevole Crocifisso processionale, e degli oratori campestri siti in prossimità delle principali arterie di scorrimento verso i pascoli montani (l’oratorio di San Rocco e l’oratorio quattrocentesco di San Salvatore) e i borghi limitrofi (l’oratorio della Madonna della Rocca). Di questa fortunata congiuntura politico-economica restano ben visibili, disseminati fra i carrugi tortuosi del borgo, numerosi architravi in ardesia o arenaria scolpiti e iscritti da lapicidi liguri itineranti di formazione cenoasca, oltre ad alcuni edifici storici in cui erano dislocati taverne, forni e frantoi “a sangue”, che ricordano l’importanza assunta dalla produzione olearia in quel torno di tempo. La prima metà del XVI secolo, tuttavia, segna anche l’inizio delle terribili incursioni turco-barbaresche che, favorite dal “nuovo corso” impresso da Andrea Doria alla politica genovese, flagellarono la Valle del San Lorenzo per un secolo e oltre, seminando roghi, morte, razzie e terrore nei centri più ricchi e popolosi, fra cui anche Pietrabruna.
Di quel difficile periodo restano tracce indelebili nell’edificazione o fortificazione delle “case-torri” che punteggiano i principali snodi viari del borgo. L’autonomia comunale, raggiunta formalmente nel 1613 per mandato della Repubblica di Genova e perfezionata entro la prima metà del secolo, fu il naturale risultato di una lotta secolare per l’affrancamento delle ville dei terzieri e l’atto ufficiale di fondazione del primo palazzo pubblico, di cui resta viva memoria nell’architrave frammentario di Via Paolo Giordano, dove campeggia la data 1616 e le abbreviature di un salmo edificante in cui si celebra la concordia del potere religioso e politico, delle due anime del popolo prebünenco.
L’epoca moderna, grazie alla fine delle ultime scorrerie turco-barbaresche, segna una nuova fase di rilancio del borgo che, come avviene per altre realtà montane della Valle del San Lorenzo, si lega all’incremento della produzione olearia che, attraverso i mercati portorini, giunge in Provenza sino all’Olanda e all’Inghilterra (secoli XVII-XIX). I proventi derivanti da questa importante risorsa commerciale si tradussero presto in una serie di investimenti artistici, che aggiornarono le forme architettoniche e le quadrerie di alcuni importanti edifici religiosi. È questo il caso dell’oratorio dell’Annunziata, che entro il 1705 venne riedificato, affrescato e decorato secondo il nuovo stile barocco imperante nell’Estremo Ponente Ligure, o della parrocchiale dei Santi Matteo e Gregorio Magno, che intorno al 1844 venne interamente riedificata secondo un gusto neoclassico ispirato alle tendenze francesi del periodo. Attraverso la nascita e la caduta della Repubblica Ligure (1797-1805), l’annessione all’Impero Napoleonico (1805-1814), al Regno di Sardegna (1815) e alla Provincia di Porto Maurizio (1860), sino ai lutti della prima guerra mondiale, si giunse in epoca fascista alla formazione del Comune di Pietrabruna, in cui confluirono anche i soppressi comuni di Boscomare e Torre Paponi. Altre indimenticate tragedie attesero il nuovo Comune montano durante la guerra di Liberazione dalle truppe nazi-fasciste nel corso del secondo conflitto mondiale (1944-1945); pagine di sangue di cui è tristemente ricca la storia della Resistenza locale e che restano scolpite a imperitura memoria nelle lapidi e nel monumento ai caduti che sorge in piazza San Matteo Evangelista.
Il nome di Pietrabruna, oggi, rievoca tradizioni agricole, religiose, sportive, gastronomiche e folcloriche davvero uniche, che accrescono il fascino di questo “villaggio di pietra” contribuendo a diffonderne la fama nell’intera provincia di Imperia e oltre. È il caso della “stroscia”, il dolce tipico di Pietrabruna, una torta friabile impastata con abbondante olio extra vergine, farina, zucchero e vermouth, che rievoca la cucina povera degli avi e trae il nome dal verbo dialettale “strosciare”, ovvero rompere, spezzare. Un’altra espressione storica del territorio è senza alcun dubbio la coltivazione del fiore della lavanda che, sino a non molti decenni orsono, durante i mesi estivi tingeva di blu-violetto i campi retrostanti l’abitato, regalando un colpo d’occhio suggestivo. Una tradizione che, pur in misura minore, resiste ancora a livello locale e che ogni anno, intorno ai primi di agosto, viene celebrata in una grande fiera paesana in cui affluiscono i derivati della lavorazione della spiga e dell’essenza e altri prodotti di nicchia presenti sul territorio, come il miele, l’olio extra vergine di oliva taggiasca, l’oro giallo della Valle del San Lorenzo, e i fiori. La scomparsa quasi improvvisa della coltura della lavanda, infatti, non ha mutato molto la vocazione agricola del borgo che, soprattutto negli ultimi decenni, ha associato il proprio nome alla produzione sceltissima di anemoni e ranuncoli dai mille colori diretti verso il celebre mercato floricolo di Sanremo e del Nord Europa. Esistono altre due gloriose tradizioni che, forse meno note ai più, ma ben più radicate nella cultura dei prebünenchi di oggi e di ieri, hanno contribuito a diffondere il nome del borgo oltre i confini liguri. Una di queste riguarda la Banda Musicale “Santa Cecilia”, che da un secolo e mezzo raccoglie la passione, il talento e l’estro di numerosi concittadini e che, specie negli ultimi anni, ha aperto le porte a nuove forze provenienti dalle vallate limitrofe, dando vita a un vero e proprio consorzio in cui militano elementi provenienti dalle bande musicali di Badalucco e di Pompeiana. Un’ultima doverosa citazione merita, infine, la pratica sportiva più radicata nella cultura e nella memoria storica dei prebünenchi, e non soltanto, il pallone elastico. A questo straordinario collante sociale conosciuto anche come “palla-pugno” hanno dedicato, e dedicano tuttora, energie e tempo libero numerose generazioni di giovani e anziani che, scartando attività sportive ben più celebri a livello nazionale, si sono avvicendanti e affrontati sui campi del campionato nazionale come nei tornei organizzati fra i caruggi e le piazze dei centri storici di tanti borghi liguri e piemontesi.
Stefano G. Pirero