Oltre a rappresentare da sempre un’importante risorsa economica della Valle, sono oggi utilizzate come ingredienti base nella produzione di oli essenziali, infusi, tisane, per la creazione di profumi e prodotti per la bellezza e come ingredienti per la cucina. Catturare l’essenza odorosa delle piante e conservarne il profumo è un’attività perseguita dall’uomo fin dall’antichità. L’estrazione delle essenze aromatiche è un arte antichissima. I nostri antenati avevano capito i potenti effetti degli aromi e li usavano nelle cerimonie religiose, nella preparazione di profumi ed unguenti e come primi rimedi terapeutici.
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Le molecole degli oli essenziali hanno molta affinità con i tessuti del corpo umano e quindi riescono facilmente a penetrare la cute passando attraverso i follicoli piliferi, entrano in circolo, attraverso il sangue o tramite la linfa. In questo caso le applicazioni sono per uso topico medianti massaggi con oli, creme o unguenti semplicemente bagni, docce o pediluvi. Gli oli essenziali possono altresì essere assunte per via interna diluendole alcune gocce per esempio nel miele. Nonostante ogni olio sia dotato di una propria attività specifica (balsamico, digestivo, cicatrizzante, rilassante, depurativo) tutti, seppur in diversa misura, hanno proprietà antisettiche e antibiotiche e sono in grado di sostenere le nostre difese immunitarie. Nel caso di assunzione orale è sempre meglio chiedere un parere di un medico o esperto.
LA LAVANDA
Sino a non molti anni fa, quando il sole di luglio e agosto cuoceva le messi mature, i prati e i pascoli che circondavano Pietrabruna, Boscomare, Torre Paponi e Lingueglietta si tingevano del colore blu-viola intenso delle spighe fiorite di lavanda. Un pezzo di Provenza a due passi dalla frontiera, uno spettacolo unico e antico, che si ripeteva ciclicamente e si concludeva, agli inizi di settembre, con le spighe tagliate fra grandi bagliori di lame affilate, con i fasci generosi racchiusi in ruvide tele (i “cùri”) e, sempre, con i contadini e le some cariche di fiori odorosi in lento cammino sulle mulattiere petrose che conducevano al borgo e ai monumentali alambicchi di rame con cui lavorare ed estrarre stille di essenza preziosa. L’olio che si ricavava era un bene davvero prezioso, avaro perché estremamente basso nella resa e, pure, utile come nessun altro per il trattamento dell’insonnia, della tachicardia, dei problemi respiratori e, prima di tutto, per profumare e igienizzare la biancheria e le mura domestiche.
Oggi, dopo decenni di abbandono, il fiore che fu già degli antichi romani sta ritornando a popolare le alture del Comune di Pietrabruna e, proprio in questo borgo ricco di storia, i magnifici alambicchi di rame ritornano a ribollire, a sbuffare e a produrre il balsamo prezioso della civiltà contadina.
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Meraviglioso e profumato cespuglio colorato di mare, da tempi immemorabili ornamento delle Alpi Marittime e pianta conosciuta dalla medicina popolare per le sue molteplici proprietà officinali, la lavanda cresce ancora spontanea sulle propaggini più alte del Monte Follia (m. 1039) e del Monte Faudo (m. 1141), là dove pochissime altre piante riescono a vivere. L’origine della coltura e della produzione dell’essenza su questo versante delle Alpi Liguri rimonta già all’Ottocento e, per quel che concerne il territorio montano del Comune di Pietrabruna, se ne hanno notizie almeno dai primi anni Venti del secolo scorso. A quell’epoca si parlava ancora e soltanto di fiori spontanei raccolti in località impervie e lontane, trasportati a prezzo di dure fatiche verso l’impianto. “Impianto”, forse una parola grossa che, pure, documenta i notevoli perfezionamenti tecnologici raggiunti rispetto ai precedenti contenitori “a testa di moro”, così chiamati per via della forma del coperchio di chiusura che convogliava i vapori profumati nella serpentina di condensazione. Infatti, i contenitori di allora, ancora a fuoco diretto, erano già cilindrici con forma e guarnizione migliorate, che consentivano dei cicli di lavorazione più rapidi ed efficaci.
Nel volgere di pochi anni cominciò la coltivazione di quelle stesse piante che non disdegnavano terreni anche migliori: agli inizi fu una coltivazione timida, poco estesa, che integrava le piante spontanee o poco più, ma presto venne il turbine della guerra e insieme a qualche misterioso (allora) parassita che ridusse la produzione. Ritornata la pace, venne ben presto anche una nuova varietà, molto simile alla prima ma più robusta: un ibrido di nome “lavandino” (dal francese “lavandin”). Si tratta di un incrocio (sterile) proveniente da due diverse varietà di lavanda. Grazie a questa pianta, fra gli anni ’50 e ’70, quando il sole di luglio e agosto cuoceva le messi mature, i prati e i pascoli che circondano Pietrabruna, Boscomare e Torre Paponi iniziarono a tingersi di un colore blu-viola intenso.
Un pezzo di Provenza a due passi dalla frontiera, uno spettacolo unico che si ripeteva ciclicamente concludendosi, agli inizi di settembre, con le spighe tagliate fra grandi bagliori di lame affilate, con i fasci generosi racchiusi in ruvide tele (i “cùri”) e, sempre, con i contadini e le some cariche di fiori odorosi in lento cammino sulle mulattiere che conducevano ai borghi del Comune.
A Pietrabruna, per esempio, dove li attendevano i monumentali alambicchi di rame con cui lavorare ed estrarre stille di essenza preziosa. A quell’epoca, gli impianti per distillare un quantitativo così grande di spighe erano diventati numerosi (una decina circa) e semi industriali, non più a fuoco diretto, ma alimentati da vapore prodotto in caldaie dapprima funzionanti a legna, poi a nafta.
Gradualmente cambiarono anche i mezzi di trasporto e venne l’era della meccanizzazione; così, per trasportare quantitativi così grandi di spighe iniziarono a non bastare le robuste spalle dei portatori, né quelle più robuste dei muli. Comparvero le teleferiche, lunghi fili d’ acciaio che collegavano le colline circostanti alla periferia “industriale” (per così dire) del paese. Certo, non si badava troppo all’anti-infortunistica, gli impianti erano piuttosto rudimentali, le carrucole fischiavano portando a valle i fasci carichi di spighe, ma grazie a tanta attenzione e a un po’ di fortuna tutto filava liscio. Ma gli anni passavano, vennero le strade interpoderali e spartanissimi mezzi meccanici a motore, quasi dei prototipi (si chiamavano “grimper”). Talvolta, non mancarono le discussioni animate sui percorsi da scegliere, ma si trovò sempre l’accordo sul tracciato da percorrere a cavallo di quei destrieri rumorosi e sulla cifra da spendere, sempre rigorosamente a carico dei coltivatori.
Finirono gli anni Settanta e un’ infezione fungina fece il suo ingresso nelle coltivazioni d’altura. Si fecero analisi e tentativi, ma non ci fu più nulla da fare. L’attacco fu così virulento da portarsi via quasi tutto nel giro di pochi anni. La gente di Pietrabruna e i coltivatori locali presero coscienza della situazione e caparbiamente ci si rivolse verso altre colture, che proprio in quegli stessi anni andavano incontrando il favore del mercato di Sanremo, uno dei grandi punti di smercio nazionale e internazionale. Qualche isolata coltivazione di lavanda rimase e, specie in questi ultimi anni, inizia a riprender piede nei dintorni di Pietrabruna, Boscomare e Torre Paponi, confortata dal successo riscosso a livello turistico nelle contrade non lontane della Provenza. Nel frattempo, però, nuovi colori e nuovi profumi si sono appropriati delle campagne e, oggi, le serre e i campi baciati dal sole accolgono i fiori variopinti degli anemoni e dei ranuncoli, ma anche varie tipologie di “verde” (il ruscus), destinati alle composizioni ornamentali che hanno reso celebre il borgo e conferito lustro alla stessa Sanremo, la “città dei fiori”.
(Paolo Giordano, Stefano G. Pirero)