Defilata e posta fuori dei grandi circuiti urbani della Riviera, la Valle del San Lorenzo potrebbe essere considerata un’area periferica dell’Estremo Ponente Ligure anche sotto il profilo storico e artistico. In realtà, ciò non è così vero. Questa vallata dolce e soleggiata di natura alluvionale e sedimentaria, infatti, vanta una sicura antichità e custodisce un sito d’altura la cui frequentazione risale almeno all’Età del Ferro (IV-III sec. a.C.). Si tratta del “castelliere” (o “castellaro”) scoperto alle pendici del Monte Faudo (1149 m.), sulla cima secondaria del Monte Follia (1031 m.): un abitato cinto da mura anulari realizzate nella caratteristica tecnica “a secco” che ricomparirà nelle terrazze olivate (le “fasce”) al tempo dei Benedettini e che, pur con varie interruzioni, fu occupato in epoca pre-romana e augustea (fine I sec. a. C.) sino al basso Medioevo. Il sito, celebre agli addetti ai lavori, ha restituito interessanti reperti legati alla vita domestica e quotidiana (ceramiche, ossa animali, armi, utensili e oggetti d’abbigliamento), all’ambiente naturale e alle colture praticate (essenze e resti botanici di roveri e roverelle, ma anche di farro e frumento), e, infine, all’attività di un’officina per la lavorazione del ferro. Di quest’autentica culla della civiltà locale e dei reperti provenienti da un altro insediamento che sorgeva sulle alture circostanti, il Monte Sette Fontane, si conserva memoria tangibile nel Museo Archeologico ed Etnografico “Giuseppina Guasco” di Pietrabruna, dove la preistoria si fonde con la storia recente di questo antico borgo montano.
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Se i secoli che si succedono all’indomani della caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) rappresentano ancora un periodo buio poiché privo di una vera documentazione scritta e materiale, è assai probabile che i borghi a monte della linea di costa, come Civezza, Pietrabruna, Boscomare, Lingueglietta (Linguilia o Vinguilia) e Cipressa, si siano formati fra il X e l’XI secolo. Alcuni di questi, pur conservando la traccia orale di una tradizione fondativa che ne retrodaterebbe l’origine a epoca preromana (Civezza e Cipressa), condividono le stesse dinamiche insediative dei paesi dell’entroterra ligure di Ponente. Sotto il profilo storico, infatti, anche in queta zona l’eco prodotta dalla caduta del Fraxinetum (972 circa), il covo provenzale da dove partivano le temibili incursioni dei pirati e predoni saraceni diretti verso i principali valichi alpini, e da qui verso i tesori delle grandi abbazie, rappresenta quasi un “grado zero” cui ancorare anche la ripresa generalizzata della vita associativa.
L’alba del nuovo millennio, che secondo la celebre espressione di Rodolfo Glabro (Raoul Glaber) stese un candido manto di edifici religiosi sulle lande disperse del continente europeo, segna anche qui l’inizio di un lungo Medioevo che plasmerà in modo indelebile la maglia urbana dei borghi più antichi. Sebbene il patrimonio artistico medioevale dell’alta Valle del San Lorenzo sia stato in parte compromesso a causa del mutare del gusto e, in certi casi, di una politica poco attenta dell’uomo moderno, è fra l’XI e il XII secolo che sorgono i più antichi edifici religiosi. Al primo tempo dell’architettura romanica datano, infatti, le costruzioni (o talvolta le ricostruzioni) delle chiese cimiteriali di Sant’Antonio Abate (antica parrocchiale di Cipressa e, in un secondo momento, di Costarainera), di San Pietro e della Natività di Maria Santissima a Lingueglietta, di San Siro a Boscomare, di San Gregorio Magno a Pietrabruna e di San Marco a Civezza. Si tratta di una serie di edifici già esistenti verso la metà del XII secolo (presenti in un documento di decimazione del 1153) che, oggi, non esistono più (San Siro), che sono stati pesantemente rimaneggiati (Sant’Antonio, la Natività e San Gregorio) o interamente ricostruiti (San Pietro e San Marco). Soltanto la chiesa di San Gregorio Magno, antica parrocchiale di Pietrabruna, è sfuggita a questa sorte e ha conservato intatta la zona del catino absidale (1103 circa), dove corre un fregio ad archetti pensili che costituisce uno dei motivi tipici dell’architettura romanica ligure e lombarda.
Interessante, sotto questo punto di vista, il caso di Lingueglietta, dove la creazione di una corte feudale stabile a opera di Anselmo I da Quaranta pose le basi per una committenza d’eccellenza, che ci ha lasciato alcuni fra i più interessanti episodi architettonici dell’Estremo Ponente Ligure. All’influenza dei Signori di Lingueglia e ai solidi canali politici stretti con Genova si devono, infatti, le linee generali della facciata gotica della chiesa della Natività di Maria Santissima (fine del XII-inizi del XIII sec.), parrocchiale dell’Universitas popolare e antica pieve della spalla occidentale della vallata, e quel superbo monumento di “pietra piccata” (pietra tagliata), che è San Pietro (metà circa del XIII sec.). In uno scacchiere politico tanto instabile e frazionato, dove alla metà del Duecento si affrontavano il Comune di Porto Maurizio (che deteneva il controllo di Pietrabruna, Civezza e del borgo orientale di San Lorenzo), gli ultimi diritti residui dei marchesi di Clavesana (un secolo addietro detentori dei principali borghi dell’alta valle e delle “bàndite” comuni), e il feudo (o “principato”) monastico di Santo Stefano di Villaregia (in cui rientravano Cipressa, Terzorio, Castellaro, Santo Stefano, Riva Ligure e Pompeiana), non è un caso che proprio nel cuore della valle, laddove si era formata una signoria feudale duratura, si siano conservati i maggiori monumenti gotici dell’epoca. Insomma, è grazie alle committenze dei Lingueglia che, via Genova, giunsero in zona le più abili maestranze di costruttori, lapicidi e tagliapietre note come “magistri Antelami”, che provenivano in origine dalla Valle d’Antelamo (la Val d’Intelvi) e dalla regione dei Laghi Lombardi. Una corporazione altamente specializzata a cui si devono le maggiori fabbriche religiose duecentesche del Ponente Ligure, come l’edizione attuale della Cattedrale di Albenga, la chiesa dei Santi Giacomo e Filippo ad Andora, la concattedrale di San Siro a Sanremo o, infine, il portale della Cattedrale di Albenga.
Se il panorama artistico della Valle del San Lorenzo in epoca romanica e gotica resta comunque deficitario e confuso a causa delle dispersioni, delle demolizioni e delle profonde modifiche subite dagli edifici religiosi in tempi successivi, l’età tardogotica al contrario può contare ancora su una messe di documenti che traguardano abbondantemente la soglia del Cinquecento e, talvolta, del Seicento. Tanto in architettura come in scultura e in pittura, infatti, si assiste a una proliferazione di opere che invadono le vie dei borghi e che, a seconda delle possibilità economiche di ciascuna comunità, lasciano un’impronta profonda nel contesto culturale locale. Fra la seconda metà del XV e la prima metà del XVI secolo, infatti, si procede alla massiccia costruzione o ricostruzione delle antiche parrocchiali e degli oratori limitrofi destinati a “casacce”, ovvero a sedi (letteralmente le “case”) delle confraternite di Disciplinanti (i “Flagellanti” o “Battuti della Croce”). Si tratta di un movimento di devozione popolare che, sorto verso il 1260 in quel di Perugia, si diffuse anche nelle estreme propaggini della Liguria fra il XIV e il XV-XVI secolo e che, nel Ponente, condusse alla formazione di un polo religioso ben definito all’interno della maglia urbana dei borghi. Un centro “gravitazionale” in cui dialogano e spesso competono per mole architettonica la chiesa parrocchiale (punto di riferimento dell’autorità ecclesisatica) e l’oratorio confraternale (sede della “società” laica di confratelli). È quanto si può ancora osservare, sebbene in un contesto ormai barocco (dunque, sei e settecentesco), nelle piazze principali di Cipressa, Civezza, Costarainera, Lingueglietta, Torre Paponi e, un tempo, San Lorenzo al Mare. In questo clima di rinnovato fervore religioso e di grandi frati predicatori itineranti (san Vincenzo Ferrer e san Bernardino da Siena), s’inquadrano dunque i principali cantieri religiosi dell’entroterra che, come la chiesa di Sant’Antonio Abate e l’oratorio campestre di San Sebastiano (secoli XV-XVI), si allineano a un moto di “anti-rinascimento” o, meglio, di rinascenza delle forme romaniche, di “neo-romanico”, cui partecipa appieno anche l’arte scultorea.
In questo modo, alle colonne cilindriche, ai capitelli sfero-cubici o fogliati e agli arcaici architravi si affiancano teorie di motivi simbolici lavorati a bassorilievo, che affondano le radici nella tradizione paleocristiana (vasi biansati e kantaroi della vita, alberi gemmati e arbores vitae, monogrammi cristologici, croci patenti raggiate ecc.); elementi che, come le teste mozzate (le “tétes coupées”), sigillano gli spazi del sacro come le soglie profane delle abitazioni private con intenti magico-apotropaici e benaugurali. A questa rinascenza dell’architettura e scultura tardoromanica e gotica appartengono, per citare qualche caso, gli interessanti avanzi architettonici della chiesa di San Bernardo a Boscomare (1587-1597), i frammenti dispersi della chiesa di San Marco a Civezza (fine del XV-inizi del XVI sec.), i resti cospicui della chiesa dei Santi Matteo e Gregorio Magno a Pietrabruna (1534-1539) e, infine, una serie di architravi in arenaria e ardesia che impreziosiscono i carruggi di questo e di altri borghi montani. Opere che presentano un segno rapido e una concezione della forma e dei volumi semplificata, rude e primitiva di cui si fanno portavoce generazioni di scultori locali di formazione “cenoasca”.
Al clima ritardatario da “autunno del Medioevo” che si respira nelle arti plastiche e architettoniche, tuttavia, non è estranea la produzione pittorica, che può contare ancora su importanti documenti quattro-cinquecenteschi. È il caso degli affreschi sciupati del portale maggiore della chiesa di San Gregorio Magno (1481) e della cappella campestre di San Salvatore a Pietrabruna (fine del XV sec.), ascrivibili alla bottega itinerante dei fratelli Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, della tavola raffigurante Sant’Antonio Abate dipinta dal nizzardo Antonio Brea per l’altare maggiore dell’omonima parrocchiale di Cipressa e Costarainera (1504), oggi al Museo Civico di Sant’Agostino a Genova, del polittico frammentario di San Sebastiano dipinto da Emanuele Macario da Pigna (terzo-quarto decennio del Cinquecento) per l’omonimo oratorio campestre di Costarainera, e, infine, della tavola dell’Annunciazione firmata dal genovese Agostino da Casanova (1545) e destinata all’altare maggiore dell’omonimo oratorio di Disciplinanti di Pietrabruna. Si tratta a tutti gli effetti di una piccola pinacoteca di arte sacra che, seppur a campione, fornisce un’idea precisa sulle cifre stilistiche correnti dell’arte tardogotica e “internazionale” e dei primi, cauti accenni di Rinascimento.
(Stefano G. Pirero)