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In una scena semivuota – come la mente prima di essere disegnata dai pensieri – appare Maram al-Masri, o meglio, l’attrice che la interpreta. Racconta, semplicemente, della sua vita e del nodo di violenza a cui la sua vita è rimasta incagliata… fino al momento in cui quel nodo diventa strumento per riconoscere le storie di altre donne così simili alla sua. Nel vuoto, ora pieno di vita, affiorano, una dopo l’altra, altre immagini femminili, voci che si avvicendano, si accavallano, cantano – in sussurri o grida troppo spesso implose – di vite ferite, sfigurate, maltrattate.
La poesia di Maram allora – la sua “partecipazione alla vita di tutti”, la sua “presa in carico della gioia e del dolore di tutti” – diventa, nella narrazione di tante storie di abusi e sopraffazioni sia fisiche che morali, “la rivelazione folgorante che la bellezza non esclude la bruttezza, ma la supera e la assimila…” in una performance in cui l’amore pur sotterrato, pietrificato, ma vivo sotto il dolore, fa sentire la sua voce e coraggiosamente si racconta.