Chiesa di Sant'Antonio Abate

Monumento: Chiesa di Sant’Antonio Abate

Ubicazione: Costarainera

Datazione generale: Fine del sec. XII-XVIII sec.

Descrizione generale: La chiesa sorge all’interno di una cornice naturalistica e paesaggistica di grande suggestione e presenta un caratteristico impianto a tre navate sotenute da una doppia serie di colonne in pietra e da pilastri intonacati che, tuttavia, mancano della simmetria programmata in origine. Un aspetto che s’indovina già incontrando la colonna erratica in arenaria che, come una sorta di meridiana solare, è stata rimontata in data imprecisata davanti al portale maggiore, all’interno del sagrato.

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Il volume rettangolo di base trova proiezione, in alzato, in una facciata a capanna dagli spioventi bassi e irregolari, che manifesta chiaramente la traccia dei principali rimaneggiamenti occorsi sul corpo di fabbrica nel corso della propria vicenda conservativa. In questo modo, si riconoscono alcune soluzioni di continuità fra le addizioni quattro e cinquecentesche che hanno modificato l’originale volume duecentesco e, con esse, l’evoluzione del sistema di aperture, ovvero delle finestre mediane e superiori e degli ingressi alle navate. La zona absidale si risolve attualmente nel volume semicircolare della cappella centrale, in quello rettilineo della sagrestia, che corona la navata destra, e nel blocco solido e compatto della torre campanaria, sistemato in capo alla navata opposta. Davvero pregevole, sotto questo punto di vista, la decorazione ad archetti pensili che corre lungo il margine superiore della cella campanaria e, a un tempo, la coppia di stemmi araldici a bande traverse dei Signori di Lingueglia, che guardano in direzione dell’abitato storico di Costarainera. Al suo interno, la chiesa si presenta quasi interamente ricoperta a intonaco e in luogo del sistema di ingressi laterali che si scorgono all’esterno si erge una nutrita serie di altari a muro dalle linee barocche e dalle cornici a stucco.

Davvero notevoli, sotto il punto di vista degli arredi liturgici, il fonte battesimale ottagonale ricavato in un sol blocco di arenaria grigia (pietra di colombina), databile alla metà circa del XV secolo, e la coppia di transenne mediane che, come in San Gregorio Magno a Pietrabruna, ripartiscono in due zone virtualmente distinte pavimento e volume della chiesa cinquecentesca. È davvero un peccato, in tal senso, non poter più godere del vivace rivestimento ceramico che in origine ricopriva le specchiature di tali elementi trasversali e che, fra XIX e XX secolo, è stato progressivamente smembrato e smantellato. I soli frammenti superstiti delle piastrelle (o laggioni) sono stati reimpiegati nel piano presbiteriale come pezzi di ricambio per la manutenzione ordinaria del gradino (o predella) su cui si erge l’altare maggiore. L’abside che lo ospita e che comunica con i vani adiacenti della sagrestia e del campanile, tuttavia, rappresenta la zona più fortemente compromessa dell’edificio e riflette una sistemazione già sette-ottocentesca, che ne ha sconvolto profondamente linee ed aspetto cinquecenteschi (emblematico, in proposito, il reimpiego dell’Ecce Homo che oggi campeggia sull’architrave del porta d’ingresso alla torre campanaria e che, in origine, sormontava il recesso di un tabernacolo a muro).

Stato di conservazione: L’edificio, preservato dalla costante avanzata del fronte urbano, ha sofferto sin dall’epoca della ricostruzione protocinquecentesca di dissesti statici. La navata destra, infatti, poggia su un terrazzamento artificiale incoerente che è stato realizzato riportando semplicemente terra e pietre e che, non prevedendo una reale fondazione ipogea, tende a scivolare verso l’esterno.

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Un dato, questo, che si è ripercosso su tutti gli elementi destinati a ricevere pesi e carichi gravanti dall’alto, come le pareti e le colonne che, nel tempo, hanno iniziato a deformarsi e fratturarsi. Del resto, la conservazione dell’edificio, specie a partire dalla prima metà del Seicento, si è pesantemente aggravata a causa dell’abbandono derivante dal distaccamento e dalla costruzione della nuova chiesa parrocchiale di Cipressa e, al contempo, dalla ristrutturazione della chiesa di San Giovanni Battista a Costarainera, neo parrocchiale del borgo. Inoltre, gli unici interventi manutentivi di cui si ha notizia per questo periodo, se si eccettua la grande campagna di ricostruzione dell’abside (1782 circa), si limitarono alla mera (ma vitale) conservazione e riparazione di un edificio che minacciava costante rovina, che era officiato saltuariamente e che, soprattutto, non possedeva più i redditi necessari al suo sostentamento. Nonostante la dichiarazione d’interesse artistico da parte della Soprintendenza all’inizio del Novecento (1908) e i sopralluoghi effettuati, la chiesa è stata vittima di furti e danneggiamenti vari e, in concomitanza con le guerre mondiali, venne definitivamente chiusa al culto.

In questo perido, tuttavia, si procedette con la costruzione di una massiccia cordolatura in pietra e di una serie di contrafforti “a scarpa” lungo il fianco destro (1925) e, ancora, di numerosi tiranti metallici e catene in ferro (1959) che, nelle intenzioni dei restauratori, dovevano opporsi alla spinta del terreno e garantire un migliore equilibrio statico. Un fine che, in realtà, è stato raggiunto faticosamente e solo in tempi molto recenti grazie a un intelligente lavoro di recupero e valorizzazione patrocinato dal Comune di Costarainera che, avviato nel 1990 e conclusosi quindici anni dopo, ha saputo recuperare e riportare finalmente in valore un monumento fra i più interessanti dell’intero panorama architettonico e scultoreo tardomedioevale dell’Estremo Ponente Ligure.

Cenni storici:

isolata sulla collina che ripara il borgo di Costarainera e stretta come in un abbraccio simbolico fra le mura dell’antico recinto cimiteriale, i pini e i cipressi che popolano da secoli questo sito, la chiesa di Sant’Antonio Abate si rivela poco alla volta alla vista di coloro che la ricercano percorrendo sentieri e mulattiere ricche di storia.

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L’antichità dell’area, del resto, è fuor di dubbio ed è altrettanto sicuro il ruolo di raccordo viario che essa ricoprì “ab antiquo” e, per quel che ne sappiamo, almeno dal X-XI secolo. Sebbene siano molte le leggende e le tradizioni orali che vorrebbero esistere già un edificio in età longobarda o carolingia (sec. VIII), l’intitolazione al santo anacoreta del deserto egiziano si salda indiscutibilmente con le sorti dei signori feudali che, a Cipressa e Terzorio, possedevano l’ultimo lembo del loro vasto dominio, i Conti di Ventimiglia. Si deve alla volontà di questa stirpe comitale, infatti, la fondazione di una cappella protoromanica che, almeno durante il XII secolo, era officiata da monaci benedettini (forse provenienti dalle isole di Lérins o Montmajour) e si affiancava a un “hospitale pro infirmis Antonii”, destinato al ricovero dei pellegrini e alla cura taumaturgica del fuoco di sant’Antonio.

Non sappiamo nulla di quel complesso architettonico. Tuttavia, almeno per quel che concerne l’edificio religioso, esso doveva presentare un volume e dei caratteri stilistici non troppo diversi da quelli che riconosciamo in monumenti del primo tempo del romanico, come la chiesa di San Gregorio Magno (1103 circa) o la chiesa di Santa Maria del Canneto e la cappella di San Martino a Taggia (seconda metà dell’XI secolo per ambo i casi). Di certo, la chiesa compare già nell’elenco delle parrocchie tassabili della Diocesi occidentale che il vescovo di Albenga Odoardo affidò nel 1153 a un nuovo potente feudatario di origine piemontese, Anselmo I De Quadraginta, il capostipite dei Lingueglia. Il radicamento e la fulminea ascesa politica del nobile all’interno della valle furono dei fattori decisivi che spinsero i Ventimiglia, ormai sempre più isolati e stretti fra entità istituzionali diverse (fra le quali anche il fresco Comune di Porto Maurizio), a cedere ai Benedettini di Villaregia ogni diritto sui borghi di Cipressa e Terzorio e loro pertinenze (1215-1225). Può farsi risalire grossomodo a quell’epoca la ricostruzione della cappella protoromanica nelle forme di un edificio a una sola navata rettangolare e monoabsidata, il cui profilo originario s’indovina ancora nella parte mediana della facciata attuale. Si trattava di una chiesa dotata di un certo respiro architettonico e, stando ai conci squadrati che s’individuano presso la linea verticale dei contrafforti, anche di una qualità tecnica che l’avvicinava ad altri monumenti notevoli della zona, come la chiesa di San Pietro e la fase I della parrocchiale di Lingueglietta. Certo, se confrontata al San Pietro, il paramento duecentesco di Sant’Antonio Abate si direbbe conservare un aspetto ben più eterogeneo e meno compatto che, tuttavia, va imputato soprattutto ai numerosi rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli successivi.

Ancora una volta, non possediamo alcuna notizia diretta sulle vicende dell’antica parrocchiale di Cipressa sotto la cura spirituale dei monaci di Santo Stefano. Di certo, il passaggio di proprietà ai Doria verso la metà del Trecento e il simultaneo tramonto del feudo benedettino di Villaregia non fu l’unico fattore a determinare l’avvio di una nuova campagna di ristrutturazione della chiesa. Nel lasso di tempo intercorso fra tali eventi, in effetti, era intervenuto un fatto decisivo, ovvero la fondazione e il rapido sviluppo di una villa nova cresciuta ai piedi della chiesa di Sant’Antonio Abate, che portava il nome del “clan” dei Raineri. In breve, risale alla metà del Quattrocento la costruzione della navata sinistra; un intervento che si motiva proprio in ragione della crescente pressione demografica raggiunta dalla comunità di fedeli provenienti da Cipressa e Costarainera e, al contempo, sulla base del riconoscimento di parrocchiale. Una dignitas simboleggiata tuttora da un’opera suggestiva che si conserva all’interno dell’edificio, come il fonte battesimale ottagonale in pietra di colombina per il quale fu apprestato uno spazio apposito (la navata sinistra) e un ingresso dedicato di foggia arcaica, sistemata a lato del portale maggiore. In questo modo, la nuova chiesa parrocchiale di Sant’Antonio Abate assunse una fisionomia asimmetrica che, in un certo senso, prefigurava in forme più monumentali la planimetria dell’oratorio di San Sebastiano e, seppure a distanza di oltre un secolo dalla fine della signoria monastica di Villaregia, ricalcava la configurazione architettonica della badia “madre” di Santo Stefano a Genova. Risale a quest’epoca, con ogni probabilità, la costruzione della cella che sormonta la torre del campanile medioevale, dove si scorgono le armi dei Lingueglia che, in una sorta di dominazione simbolica, spaziano proprio sull’abitato sottostante. Il suggello finale di questa fase di lavori fu l’esecuzione dell’Ecce Homo che oggi sormonta il varco d’accesso al campanile ma che, un tempo, coronava il tabernacolo a muro degli oli santi e, inoltre, l’inserimento del bel portale maggiore in conci di arenaria ben tagliati e prodotti in serie, sul quale campeggia la figurina sintetica di un Agnus Dei, forse un “omaggio” simbolico a uno dei più antichi patroni di Genova (san Giovanni Battista). L’esplosione demografica di inizio Quattrocento, l’ascesa economica della “Costa dei Raineri” e i crescenti interessi che i Doria, il Banco di San Giorgio e la Repubblica di Genova, da un lato, e i Lingueglia, dall’altro, coltivavano da sempre al suo interno costituirono una spinta propulsiva destinata a perdurare ben oltre i limiti cronologici del secolo.

A distanza di soli sessantanni dalla costruzione della navata sinistra, infatti, la chiesa parrocchiale fu sottoposta a una nuova radicale campagna di ristrutturazione, che le conferì grossomodo l’aspetto attuale. Intorno al 1511, dunque, venne realizzato un terrapieno artificiale sul lato destro della facciata, sopra al quale furono edificate le mura di una terza navata destinata ad aumentare ulteriormente la capacità dell’edificio. I rilievi e le sculture dei capitelli che sormontano le colonne dell’ala destra, al pari dei motivi simbolici che si distendono sulle loro facce non lasciano dubbi circa l’estrazione culturale dei lapicidi che lavorarono in Sant’Antonio Abate e, negli stessi anni, anche in San Sebastiano. Si tratta quasi certamente di una maestranza ligure itinerante che si era addestrata nei cantieri decorativi allestiti dai cosiddetti “lapicidi di Cénova” (ad Alassio, Bajardo e Ceriana per esempio) e che, come dimostra lo scudo araldico scolpito in San Sebastiano, giunse a Costarainera grazie alle possibilità economiche e ai valori politici messi in campo dai Signori di Lingueglia.

Sebbene non sia del tutto chiaro il loro coinvolgimento nella campagna di ricostruzione cinquecentesca, essa catalizzò comunque una quantità davvero significativa di finanziamenti da destinare a una serie di interventi collaterali di abbellimento degli arredi liturgici. Nell’ambito di quel cantiere, ad esempio, venne creata una coppia di transenne mediane in muratura incorniciate da lastre in ardesia lavorate a sottile bassorilievo che, sino a un secolo fa, inquadravano una tappezzeria di formelle (o laggioni) ceramiche dai colori vivaci. Si tratta di un elemento architettonico ormai raro, che si conserva ancora nella chiesa di San Gregorio Magno a Pietrabruna e in altri tre edifici religiosi del Ponente Ligure (il San Pietro a Ceriana, il San Giorgio a Montalto e il santuario di N. S. del Sepolcro a Rezzo) e che, un tempo, serviva a separare le donne (che sedevano nella zona più vicina al presbiterio) dagli uomini (che stazionavano nell’area adiacente agli ingressi della facciata). Nella logica di questo intervento, inoltre, furono predisposte una serie di aperture lungo il fianco destro dell’edificio, che erano destinate a disciplinare le due classi sociali durante le cerimonie funebri e, a un tempo, a sorvegliare il corteo diretto verso il cimitero retrostante. Non solo. Qualche anno prima della collocazione della “lapide di rifondazione” della chiesa di Sant’Antonio Abate sul pilastro che raccorda l’abside al capo della navata destra, nel 1504, i pittori nizzardi Antonio Brea e un suo anonimo cognato (“et cunatus suus”) eseguirono una Maestà, una grande pala dipinta per l’altare maggiore, di cui sopravvive nel Museo di Sant’Agostino a Genova lo scomparto centrale raffigurante proprio il santo titolare. Un’opera, questa, che suggellava gli interventi di rimaneggiamento della testata presbiteriale, dove la creazione della navata destra impose la costruzione del piccolo vano della sagrestia e il suo raccordo con l’abside maggiore e l’adiacente torre campanaria.

L’entusiasmo, la devozione e la concordia cresciuti attorno alla nuova parrocchiale ebbero vita breve. Gli eventi luttuosi legati alle incursioni turche e “barbaresche” della metà del XVI secolo e, forse, anche le prime tensioni sorte fra i fedeli delle due comunità segnarono l’inizio di una lenta quanto inesorabile fase di decadenza. In questo modo, a distanza di soli due o tre decenni dalla sua rifondazione, il portale del battistero e il sistema di ingressi aperti sul fianco destro furono tamponati per ridurre al minimo i varchi da difendere e, per quel che concerne la nave destra, sostituiti da altrettanti altari rinascimentali e barocchi. Non solo. I documenti raccontano di come, alla fine del Cinquecento, i fedeli che venivano sorpresi dai predoni islamici usassero asseragliarsi all’interno della chiesa, erigendo delle barricate e dei parapetti lignei al di sopra del tetto, dai quali rispondevano agli aggressori. Una prassi, questa, che ha lasciato una traccia indelebile nel corpo di fabbrica della chiesa “fortezza” di San Pietro a Lingueglietta e che, con ogni probabilità, era piuttosto diffusa in zona. In quei frangenti, anche il campanile, in ossequio alla sua antica funzione, poteva servire da torre di avvistamento e da bastione difensivo.

Erano anni difficili, resi ancor più duri dai contrasti crescenti con la popolazione di Cipressa che, con sempre maggiore riluttanza, percorreva la via di mezza costa che si distaccava dal quartiere “Castello” (o “Piazza”) per recarsi in Sant’Antonio ad assistere alle consuete funzioni liturgiche. Il Seicento, sotto questo punto di vista, è il secolo nel quale si consumano le più efferate violenze fra i concittadini dei due paesi come quando, per citare solo qualche fatto di cronaca, si giunse a rifiutare la sepoltura di una donna perché proveniente dal borgo rivale o, in altri casi, a stuprare una bambina di dodici anni perché sorpresa a passare nei pressi dell’antico edificio. Ciò detto, gli eventi precipitarono fra il 1644 e il 1654, quando si pose mano alla costruzione della chiesa della Visitazione di Maria Santissima a Cipressa, nuova parrocchiale del borgo. Un atto che sancì la definitiva separazione fra le due comunità di fedeli e che, pur ribadendo la primazia dell’antica parrocchiale, assestò un duro colpo alle finanze già precarie della chiesa. Alla metà del secolo, infatti, si possiedono notizie su alcuni crolli dovuti all’incuria, alla scarsa manutenzione, ai furti e, soprattutto, alla cattiva gestione dei redditi e delle rendite derivanti dallo sfruttamento di terre sempre più incolte e gerbide. Episodi, questi, che si ripresentarono sistematicamente durante il Settecento, aggravandosi ulteriormente fra 1709 e 1745. È il periodo in cui l’oratorio quattro-cinquecentesco di San Giovanni Battista, eretto a ridosso della cinta esterna di Costarainera, in posizione più comoda per la popolazione, fu ricostruito in forme monumentali e promosso al rango di nuova parrocchiale del borgo. Nel frattempo, il sito cimiteriale e la chiesa di Sant’Antonio Abate, quasi in ossequio alla sua antica vocazione monastica, divennero la sede di un eremo frequentato da uomini di chiesa, schivi e desiderosi di un rifugio spirituale e materiale a un tempo. Un temporaneo “ritorno alle orgini”, per così dire, che ebbe il merito di tenere desta nella memoria dei fedeli la devozione verso il vetusto edificio religioso e, per quanto possibile, di garantirne l’agibilità e il decoro. Il terremoto del 1887, disastroso per il patrimonio artistico ligure, pose fine anche a queste ultime esperienze di vita religiosa sollevando, al contempo, l’annosa questione di un serio restauro della chiesa che, depauperata e pericolante, venne affrontata positivamente soltanto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.

Stefano G. Pirero