PILLOLE DI STORIA

Secondo la tradizione, il borgo sarebbe sorto nei pressi dell’oratorio campestre di San Salvatore durante il XII o il XIII secolo per iniziativa di tre esuli veneziani, un Ricca, un Dolca (o Dolce) e un Arrigo, i quali ribattezzarono la meta del loro lungo viaggio “Cives Etiam”, in riverente e nostalgico ossequio al loro status di cittadini della Serenissima. In realtà, la sua origine potrebbe rimontare all’epoca imperiale e, come suggerisce il toponimo “Civicius” o “Civitius”, riferire dell’esistenza di un fondo agricolo, un latifondo annesso a una delle “villae” o “mansiones” sorte a ridosso della Via Julia Augista (13-12 a.C.). Di sicuro, il ritrovamento di un tegolone romano nei pressi dell’oratorio di San Salvatore, laddove passava la “strada romana”, parrebbe confermare un’ipotesi di questo tipo o, quantomeno, l’esistenza di una frequentazione di epoca tardo-romana.

Restano oscure le vicende che caratterizzarono lo sviluppo del borgo durante i primi secoli del Medioevo. Con ogni probabilità, esso cominciò a polarizzarsi e fortificarsi in luogo arroccato verso lo scadere del X secolo, quando le armate dei marchesi e dei conti liguri e provenzali debellarono definitivamente la minaccia saracena proveniente dal mare e dal covo del Fraxinetum. Durante l’età feudale, il villaggio fece parte dei vasti domini della Marca Arduinica e, a partire dal 1091, dei marchesi di Cravexana (o Clavesana), eredi diretti dell’ultima esponente di quell’antica signoria, la contessa Adelaide di Torino (o “di Susa”). A quel tempo, Civezza ricadeva all’interno di una delle due corti in cui si divideva il comprensorio occidentale della Communitas di Porto Maurizio, la corte del Prino (“curtem Pradariola”) e quella di Caramagna (“curtem Caramaniola”), dove sin dal primo quarto dell’XI secolo operavano i monaci benedettini delle abbazie piemontesi (Caramagna e Pinerolo) e dell’isola Gallinara (Albenga). In tal senso, la donazione dei principali edifici religiosi sorti a ridosso della sponda orientale della Valle del San Lorenzo a favore dei Benedettini di Lérins (1103), rappresenta un momento importante anche per la storia religiosa di Civezza, che sembra legata sin dal principio a quella di Torrazza. Nel corso del Medioevo e sino almeno agli inzi del Quattrocento, infatti, la chiesa di San Marco fu soggetta alla matrice di San Giorgio a Torrazza, in ossequio ai legami politici che legarono a doppio filo la comunità locale al comune portorino, e alla riscossione delle decime da parte di Anselmo da Quaranta e degli esponenti della Signoria dei Lingueglia.

Sebbene la prima citazione nota del borgo risalga soltanto al 1225, essa si lega significativamente all’idronimo “aqua Civecie” (o “aqua Civetie”), letteralmente il “fiume di Civezza”; il torrente che attraversava la media e bassa Valle del San Lorenzo e che, già in tempi anteriori alla fondazione del borgo orientale di San Lorenzo (1252), costituì per secoli il limite giuridico deputato a segnalare i confini del Comune di Porto Maurizio, del “Principato” benedettino di Santo Stefano di Villa Regia e della signoria feudale dei Linguillia (o Lingueglia). Alienata o liberamente ceduta dai marchesi di Clavesana alla Communitas di Porto Maurizio nel corso del XII secolo, in un momento di grave crisi del sistema feudale, Civezza fu inserita ben presto all’interno del Terziere di San Giorgio, con capoluogo a Torrazza. Da allora l’Universitas popolare condivise le sorti del comune portorino e, in particolare, dei borghi posti nell’hinterland rurale; anche quando, durante i primi anni del Duecento, si verificarono le prime ribellioni contro le politiche inique e accentratrici applicate dal terziere dominante del “castello”, il Terziere di San Maurizio, in merito agli annosi diritti di sfruttamento dei pascoli comuni posti alle pendici del Monte Follia (m. 1031). Ancora formalmente indipendente nel 1166, quando la Communitas viene menzionata fra le libere “repubbliche” marinare liguri, per Civezza come per gli altri borghi dell’entroterra portorino il XIII secolo segna l’inizio di una dedizione duratura a Genova e, al contempo, di una lotta altrettanto lunga per il riconoscimento dell’autonomia comunale. Non è un caso, dunque, se è proprio nei secoli centrali del Medioevo, fra Duecento e Cinquecento, che il borgo assume la caratteristica fisionomia raccolta e conchiusa, “a fuso”, e la ripartizione in quartieri o rioni, intitolati alle famiglie eminenti del luogo, come i Ricca, gli Arrigo (o Enrico), i Dolca e i Sasso, che si distribuiscono seguendo le linee di crinale e di mezza costa. In tal senso, il nucleo più antico del paese è quello tuttora racchiuso fra le poderose case-torri del centro storico, che si stringono una contro l’altra sulla sommità di un pianoro, generando una matassa intricata di stretti caruggi e ripidi saliscendi. Su questa compatta maglia urbana, il cuore antico di Civezza, s’innestò ben presto uno sviluppo edile tardo-medioevale favorito dall’ascesa economica dei maggiorenti del luogo e di coloro che, come nei borghi vicini, iniziarono a investire nella costruzione dei frantoi “a sangue” (a trazione animale) e a produrre e commerciare l’olio di oliva. Una risorsa estremamente preziosa, che compare subito fra le maggiori voci dell’economia locale e i cui proventi servirono a finanziare, fra le altre cose, l’erezione dei quartieri più defilati e panoramici oltre che la costruzione, o ricostruzione, dei principali edifici religiosi del borgo. È il caso della chiesa di San Marco Evangelista che, raggiunto il grado di parrocchiale (1418-1429), fra Cinquecento e Seicento fu ampliata prima a due e poi a tre navate, dell’adiacente oratorio di San Giovanni Evangelista che, eretto lungo il lato sinistro, divenne sede della locale confraternita di Disciplinanti o, infine, degli oratori campestri di San Sebastiano, San Rocco e del perduto San Mauro (di cui resta una lontana memoria, forse, nella cappelletta votiva “delle Sbalanche”).

La prima metà del Cinquecento, tuttavia, non scandisce soltanto una fase di massiccia attività edilizia degli edifici religiosi, dei frantoi “a sangue” o “ad acqua” che riempiono le vie da e per il borgo ma, anche e soprattutto, la definizione di un sistema di poderosi torri, le cosiddette “cinque torri”, a difesa degli abitanti che, proprio in quel periodo, sperimentarono le disastrose incursioni turco-barbaresche. Di quel complesso di bastioni cinquecenteschi interni ed esterni al borgo non restano soltanto le memorie architettoniche, come la “torre del Rivello” (o “degli Svizzeri”), vero capolavoro integrato dell’ingegneria militare e della cultura abitativa ligure, ma anche il triste ricordo di quei reietti che, salpati verso nuovi orizzonti, ritornarono con una nuova religione e il coltello fa i denti, pronti a razziare, incendiare e a mietere vittime fra i vecchi compaesani. Fra i “turchi” (o “barbareschi”, come venivano definiti nei documenti dell’epoca) che sbarcarono alla foce del San Lorenzo, infatti, si raccoglievano spesso elementi cristiani che, abiurata la fede dei padri e abbracciato il credo di Maometto, trovavano impiego sui legni islamici come guide esperte dei territori da predare. Naturalmente in quei tempi luttuosi anche Civezza pagò un pesante tributo (come nel rovinoso incendio del 1564 appiccato dai pirati di Dragut) e, talvolta, a causa di uno di quei rinnegati che, come quel Marco Ricca (o Marco di Civezza) citato in un documento del 1561, guidarono le incursioni agli abitati delle valli di Taggia, San Lorenzo e Cervo.

Gli anni che conducono al riconoscimento di una prima forma di indipendenza amministrativa dei terzieri della Communitas, ottenuta solo nel 1613, e al definitivo scioglimento dai legami giuridici che ancora vincolavano il borgo all’obsoleto Terziere di San Giorgio, fra 1758 e 1762, segnano una fase di rinnovato vigore edilizio. È il gran tempo del Barocco che, a Civezza, ci ha lasciato alcune fra le maggiori opere artistiche del periodo e, di certo, il polo religioso più imponente e suggestivo dell’intera valle. Le conquiste politiche che si scalano fra il XVII e il XVIII secolo, infatti, fungono da presupposto alle numerose campagne di ristrutturazione della chiesa parrocchiale e al contestuale sfarzoso rinnovamento degli arredi liturgici e della quadreria interna. Non è un caso, infatti se la fase di ampliamento a tre navate di San Marco cade a ridosso del primo quarto del Seicento (1609-1627 circa) o se, infine, la sua massiccia ricostruzione in monumentali forme barocche (1776/1777-1789 circa) segua dappresso la raggiunta autonomia istituzionale. Si tratta, insomma, di due eventi capitali per le sorti civiche e artistiche del luogo che, com’è naturale, catalizzarono enormi risorse finanziarie coinvolgendo, anche, gli edifici religiosi minori di cui era circondato e costellato il borgo. Basti pensare alla fisionomia assunta per emulazione diretta dall’oratorio di San Giovanni Evangelista che, a differenza di ciò che avviene in numerosi borghi dell’entroterra (Costarainera, Cipressa, Lingueglietta e Torre Paponi), emulò lo stile architettonico trionfante della parrocchiale senza cedere al desiderio di competere con essa. Discorso del tutto analogo per il portale delle case canoniche, identificabili nel palazzo che apre Via Dante e prospetta su piazza San Marco, la cui decorazione e le cui forme sinuose sono un vero riassunto delle cifre barocche in auge tra la fine del Seicento e il Settecento; le stesse esibite da alcuni oratori campestri e dalle anonime cappelle urbane che s’incontrano lungo Via Dante e, più in generale, dalle pregevoli parrocchiali dei Santi Cosma e Damiano a Torre Paponi e di San Bernardo a Boscomare come da altri oratori confraternitali che si distribuiscono nei borghi limitrofi (Cipressa e Pietrabruna). L’età barocca fu, dunque, il gran tempo dell’arte e dell’architettura ma, anche e soprattutto, della fede e della devozione popolare. L’epoca in cui, verso il 1645, giunse in loco uno dei gruppi scultorei lignei di maggior pregio e venerazione dell’intera Valle del San Lorenzo, la Vergine degli Angeli, che si conserva tuttora in San Marco e che, ogni cinque anni, viene trasportata in solenne processione lungo le vie del borgo.

Con la costituzione della Repubblica Genovese, e Ligure, nel 1797, il Comune di Civezza venne assegnato a diverse circoscrizioni extracomunali. In questo modo, rientrò a far parte dapprima della “giurisdizione degli Ulivi” con capoluogo a Porto Maurizio e, a partire dal 1803, a Oneglia, mentre, durante gli anni dell’annessione napoleonica (1805-1814), fece capo all’arrondissement di Porto Maurizio, nel Dipartimento di Montenotte. A quell’epoca il paese contava circa 748 abitanti, per la maggior parte contadini, in ossequio a una fiera tradizione storica che si era ormai identificata nella coltura dell’olivo e nella produzione dell’olio. Il Congresso di Vienna (1815) segnò l’inserimento della Repubblica Ligure nel Regno savoiardo di Sardegna con il conseguente passaggio del Comune di Civezza nel mandamento di Porto Maurizio che, a partire dall’Unione d’Italia, nel 1860, divenne definitivamente “Provincia”. Il borgo, che conobbe il passaggio di Napoleone Bonaparte nel 1796, merita di essere ricordato anche per aver contribuito a scrivere una pagina “minore” della storia del Risorgimento italiano. Non tutti sanno che uno dei cittadini eminenti, il medico Vincenzo Goglioso, fu un attivo patriota e un prezioso alleato per la fuga da Roma e il soggiorno in paese di Aurelio Saffi, fra il giugno e il luglio 1849, prima del nuovo arresto e dell’esilio in Svizzera. A memoria di quei fatti una lapide collocata nel 2000 presso l’ingresso della casa dei Goglioso, in Via Manzoni, celebra così l’illustre ospitaggio: “TRIUMVIRO DELLA REPUBBLICA ROMANA / PATRIOTA SCRITTORE / ANSIOSO DELL’AVVENIRE D’ITALIA / AURELIO SAFFI / (1819 – 1890) / DIMORÒ IN QUESTA CASA / DEI “GOGLIOSO” PRIMA / D’INTRAPRENDERE / LA VIA DELL’ESILIO”. Non solo. Gli anni che condussero all’unità d’Italia hanno lasciato un vivo ricordo a pochi passi da Casa Goglioso, nella riforma di quello che diverrà il nuovo polo di aggregazione civica del borgo, piazza Marconi, e in particolare nella ristrutturazione della fontana pubblica (1849-1861) che, da diversi secoli, serviva la popolazione di Civezza.

Gli anni lugubri del Fascismo, come in altri borghi della vallata, segnarono nuovamente la perdita dell’agognata autonomia comunale. A partire dal 26 ottobre 1928, infatti, Civezza venne unita al Comune di “San Lorenzo al Mare”, restandovi sottomessa sino al termine del secondo conflitto mondiale; quando, con la fine del regime nazi-fascista e degli odiosi rastrellamenti che tante vittime avevano mietuto in tutta la vallata, il 17 maggio 1946, il ripristino dello “status quo ante bellum” fu salutato con una solenne celebrazione tenutasi il giorno della festa della “Madonna degli Angeli” dinanzi alla sede del nuovo Municipio, in piazza Marconi, fulcro oggi come allora della vita politica e civile della popolazione. Oggi, il borgo conserva intatto il fascino suggestivo delle stratificazioni architettoniche e urbanistiche dell’epoca medievale e barocca che si susseguono senza soluzione di continuità all’interno dei caruggi el centro storico, fra cortine compatte di abitazioni e case-torri, fra antichi frantoi (come il Forum comunale “Gianmarco Ricca”), architravi scolpiti, forni, botteghe e spiazzi panoramici che abbracciano l’intera vallata. Uno scenario davvero pittoresco che ogni anno, il primo maggio, ospita lo spirito festoso e carnevalesco del “Circopaese”, con gran partecipazione di artisti e musicisti di strada, giocolieri, clown, trampolieri (ecc.), mentre, la prima notte di luna piena che segue Ferragosto, è la volta del “Plenilunio”; una festa, questa, dal ricordo arcaico e altrettanto pagano, che rievoca i riti del mondo contadino e celebra a ritmo di danza l’alba di una nuova stagione produttiva di cui si offrono in dono i prodotti tipici del territorio, come l’olio extra vergine di oliva taggiasca, il vino o l’albicocca tigrata.

Civezza